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La responsabilità del lavoratore dipendente

Le responsabilità contrattuali di un lavoratore dipendente nei confronti del proprio datore di lavoro rappresentano un argomento di costante attualità.

In relazione ai doveri di diligenza (art. 2104 c.c.), di fedeltà (art. 2105 c.c.) e di subordinazione (art. 2094 c.c.), nell’ipotesi di violazione degli stessi, in capo al dipendente sussiste non solo l’ipotesi di provvedimenti disciplinari a suo carico, ma anche eventuali responsabilità di ordine patrimoniale, che possono interessare cifre di denaro rilevanti.

Interessante, quindi, risulta un esame dell’istituto relativo ai doveri del dipendente e alle sue responsabilità.

 

Art. 2104 c.c. – Diligenza del prestatore di lavoro

Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale.

Deve inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende.

 

LA RESPONSABILITÀ IN GENERALE

Per responsabilità si intende la posizione del soggetto a carico del quale la legge pone le conseguenze di un fatto lesivo di un interesse protetto.

Normalmente la responsabilità è per fatto personale (diretta) ma, in casi particolari, può derivare da fatti altrui (indiretta o oggettiva): è il caso della responsabilità del datore di lavoro per il fatto illecito del dipendente e della responsabilità per il fatto degli ausiliari (vedi art. 1228 c.c., ai sensi del quale il debitore risponde dei fatti dolosi o colposi dei soggetti di cui si avvale nell’adempimento dell’obbligazione).

La responsabilità può comportare l’obbligazione di risarcire il danno cagionato dal fatto proprio o altrui (responsabilità civile ex art. 2043 c.c.).

Altre conseguenze della responsabilità possono essere l’assoggettamento del responsabile ad una pena, prevista dal codice penale o dalle leggi penali speciali (responsabilità penale), oppure ad una sanzione amministrativa (responsabilità amministrativa).

 

LA RESPONSABILITÀ NEL RAPPORTO DI LAVORO DIPENDENTE

La legislazione sociale ipotizza diverse responsabilità penali, amministrative e civili non solo a carico del datore di lavoro, ma anche a carico del lavoratore dipendente, nell’ipotesi di violazioni di norme giuridiche.

Per quanto riguarda gli illeciti penali, i reati delittuosi o contravvenzionali più frequenti, che vedono protagonisti i dipendenti, riguardano le violazioni in tema di prevenzione infortuni ed igiene del lavoro e le infrazioni in tema di prestazioni sanitarie ed economiche nell’ambito di assicurazioni sociali ed obbligatorie (ad esempio indebita riscossione della CIG grazie all’alterazione di dati e ad altri modi truffaldini). Non si dimentichi che l’entrata in vigore della legge n. 689/81, sulla modifica del sistema penale, ha depenalizzato numerosi illeciti (trasformandoli da penali ad amministrativi), tra questi alcuni riguardanti anche ipotesi di responsabilità amministrativa dei dipendenti.

La responsabilità amministrativa comporta, a carico del trasgressore, l’irrogazione di una sanzione amministrativa, che di norma si risolve nel pagamento di una somma di denaro, ma potrebbe anche concretizzarsi nella sospensione dell’esercizio dell’attività lavorativa.

Una trattazione autonoma merita, poi, l’illecito civile derivante dalla violazione da parte del dipendente di norme contrattuali ed extracontrattuali che regolano il rapporto di lavoro. Ad essa fa riferimento l’art. 2049 c.c., il quale così recita: «l padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti». Dinnanzi a tali illeciti il datore di lavoro è legittimato ad esercitare, innanzitutto, il potere disciplinare che gli è riconosciuto dalla legge (art. 7 Statuto dei lavoratori). Inoltre, il datore di lavoro può richiedere al dipendente il pagamento del risarcimento del danno ingiusto, con onere della prova a carico del datore stesso, secondo la norma generale fissata dall’art. 2697 del codice civile.

 

Art. 2105 c.c. Obbligo di fedeltà

Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, nè divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.

 

LA RESPONSABILITÀ PER DANNI DEL LAVORATORE DIPENDENTE

Il lavoratore dipendente può fornire, alle volte, la sua prestazione al datore di lavoro con negligenza od imperizia e provocare così danni all’impresa.

Ci si è posti quindi il problema di cosa accada nell’ipotesi di inosservanza del dovere di diligenza, ai sensi dell’art. 2104 c.c.

Così recita la norma in esame: «Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale. Deve inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende».

In caso di violazione di detto dovere, oltre ad attivare la procedura disciplinare (in casi estremi nella forma del licenziamento), il datore di lavoro può agire verso il lavoratore in via civile per la richiesta di una somma di denaro a titolo di risarcimento danno patito.

Pare pacifico che, quando il danno è cagionato da dolo, il datore possa esperire, nei confronti del lavoratore, l’azione di risarcimento danno secondo le regole comuni.

Diverso, invece, il discorso nell’ipotesi di colpa grave (anche se una parte di giurisprudenza, in materia, ha ravvisato la sussistenza della responsabilità per danni anche nel caso di colpa lieve; vedi, ad esempio, Cassazione, sezione lavoro, 22 maggio 2000, n. 6664, Ferrari c. Figoni, in Mass., 2000). Nessun dubbio dovrebbe sussistere, invece, circa la responsabilità in caso di danno prodotto per colpa grave.

Ricordiamo che, mentre il dolo consiste nell’aver previsto e voluto il danno causato all’impresa, la colpa è il frutto dell’inosservanza di leggi, ordini o discipline, o più semplicemente, di negligenza, imprudenza o imperizia. La colpa è, in ogni caso, esclusa quando il fatto si è verificato per caso fortuito o per forza maggiore. La distinzione tra dolo e colpa ha un’importanza pratica, dal momento che, in caso di sola colpa, sono risarcibili solo i danni prevedibili.

Art. 2094 c.c. Prestatore di lavoro subordinato

E prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore.

 

ALCUNI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

Interessante si presenta l’esame di alcuni casi giurisprudenziali. La Pretura di Mede Lomellina ha esaminato un caso tipico in materia e il 26 novembre 1966 si è espressa in tal senso, sentenziando che «il lavoratore subordinato non può essere tenuto al risarcimento dei danni verso il datore di lavoro, cagionati da imperizia o negligenza nell’esecuzione del lavoro, e ciò perché il mancato o cattivo rendimento della manodopera rientra nei rischi dell’impresa ed il datore di lavoro (anche nel caso di lavoranti a domicilio) ha tutte le possibilità (periodo di prova, successivi controlli, ecc.) di valutare le suddette qualità negative del lavoratore stesso.

Solo in caso di dolo o di violazione di specifiche direttive tecniche o norme disciplinari, può sorgere nel lavoratore una responsabilità per danni nei confronti dell’impresa.

Il preteso inadempimento contrattuale del lavoratore non può essere astrattamente misurato sulla capacità e sul rendimento dell’operaio tipo, quasi che un lavoratore fosse assimilabile ad una macchina di alta precisione, ma rispetto alla capacità e diligenza concreta dello stesso lavoratore, che il datore, in virtù della sua supremazia, esercitabile anche in esecuzione di lavoro a domicilio, è sempre in grado di accertare».

Autorevole in materia anche la sentenza della Cassazione del 20 luglio 1966, n. 1964. che così motiva una decisione:

«La violazione dell’obbligo di diligenza, specificatamente imposto al lavoratore subordinato dall’art. 2104 del c.c., importa, indipendentemente da eventuali sanzioni disciplinari, l’obbligo del medesimo al risarcimento del danno, che dalla sua condotta negligente o imprudente sia derivato al datore di lavoro, giacché il principio secondo cui quest’ultimo, in quanto trae vantaggio dall’attività svolta in suo favore dal prestatore di lavoro, deve subire i rischi e le conseguenze sfavorevoli, vale nei confronti dei terzi danneggiati ma non nei rapporti fra le parti.

L’imposizione da parte del datore di lavoro ad un impiegato del compito di guidare autoveicoli non può ritenersi i/legittima e tale da compromettere la dignità e il decoro del dipendente, talché anche dei danni derivanti dalla negligenza nell’esecuzione delle relative mansioni, il dipendente stesso deve rispondere al datore a titolo di responsabilità contrattuale».

Più recentemente, la Cassazione (Sezione lavoro, 16 maggio 2000, n. 6356) ha confermato che la violazione del dovere di eseguire la prestazione lavorativa nell’osservanza delle regole di correttezza e di diligenza costituisce un illecito aquiliano, in conseguenza del quale il datore di lavoro può agire in giudizio chiedendo il risarcimento del danno.

Il datore di lavoro, al fine di potere esercitare l’azione di risarcimento danno, assimilandola eventualmente alla procedura disciplinare, deve contestare, di norma, il fatto illecito al dipendente, con onere della prova (art. 2697 c.c.) a suo carico.

Il risarcimento del danno ipotizzabile a carico del lavoratore discende dall’applicazione della norma contenuta nell’art, 1218 del codice civile.

Dispone, infatti, il predetto articolo la responsabilità del debitore, il quale se «non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile».

 

Art. 1228 c.c. Responsabilità per fatto degli ausiliari

Salva diversa volontà delle parti, il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si vale dell’opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro.

 

L’ONERE DELLA PROVA IN CASO Dl DANNI DEL LAVORATORE

In tema di risarcimento danni, richiesti dal datore di lavoro al lavoratore in caso di prestazione negligente, è fondamentale (come in qualsiasi lite) conoscere la disciplina dell’onere della prova.

Recita infatti il più volte citato art. 2697 c.c.: «Chi vuoI far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato ovvero estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda».

Ai sensi dell’art. 1218 c.c., poiché a carico dell’inadempiente grava una presunzione iuris tan tum di colpa, grava sul dipendente l’onere di dimostrare a sua discolpa, che l’inadempimento ai doveri nascenti dal contratto di lavoro non era a lui imputabile per una delle varie cause esonerative che l’ordinamento prevede.

Questa prova contraria del lavoratore si presenta piuttosto difficile laddove si accolga la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia.

La Corte infatti stabilisce che «ai fini dell’imputabilità dell’inadempimento del lavoratore ad obblighi specifici assunti con il contratto di lavoro, e, di conseguenza, ai fini dell’affermazione della responsabilità risarcitoria del dipendente, è sufficiente anche la sussistenza di una colpa lieve nel porre in atto le infrazioni accertate, la sussistenza cioè pure di una semplice leggerezza, equivalente a mancanza di diligenza delle mansioni contrattuali assunte».

La colpa lieve è configurabile nel caso di mancata osservanza delle istruzioni legittimamente impartite al dipendente.

Nel qual caso il giudice del merito nel ricercare il nesso di causalità tra il comportamento addebitato al lavoratore e il danno risentito dal datore, deve valutare la posizione del primo con riferimento alla sua qualifica professionale, alla natura delle incombenze affidategli, nonchéalle situazioni ambientali ed aziendali nelle quali egli esplica le sue mansioni (Cassazione civile, sezione lavoro, 29 novembre 1989, n. 5250).

L’art. 1218 c.c., di cui sopra esige sul piano psicologico la sussistenza almeno della colpa del debitore stesso, la quale può sussistere anche in caso di errore, allorquando tale soggetto non abbia usato la diligenza necessaria ad evitarlo.

Ogni valutazione al riguardo spetta al giudice del merito, il cui giudizio è incensurabile in sede di legittimità. se sostenuto da adeguata e corretta motivazione (Cassazione civile, sezione lavoro, 19 febbraio 1986, n. 1003),

Il regime dell’onere probatorio sopra delineato non subisce deroga nell’ipotesi in cui le mansioni del lavoratore richiedono l’affidamento di uno strumento di lavoro che rimanga danneggiato: nella specie, la Cassazione civile (12 febbraio 1979, n. 949) aveva addossato al datore di lavoro l’onere della prova che il ribaltamento di un autobus, affidato ad un dipendente per essere guidato lungo un determinato percorso, era dipeso da un difetto di diligenza nella guida (la Suprema Corte ha respinto il ricorso, enunciando il principio di cui sopra). Frequente è il caso del lavoratore, che, firmato il contratto di lavoro, non si presenti alla data pattuita per l’inizio della prestazione, né successivamente, senza darne preventiva comunicazione o giustificazione: egli è tenuto a risarcire il danno arrecato al datore di lavoro con il recesso ingiustificato dal rapporto, da quantificarsi nella misura corrispondente all’indennità sostitutiva del preavviso (Pretore di Prato, 9 novembre 1990).

E ammissibile, senza alcun limite, la compensazione giudiziale tra un credito del lavoratore derivante dal rapporto di lavoro e il credito del datore di lavoro per risarcimento di un danno derivante da inadempimento dello stesso contratto di lavoro, sempreché quest’ultimo risulti certo, liquido ed esigibile.

Da sottolineare che l’azione contrattuale diretta ad ottenere il risarcimento del danno deve essere tenuta distinta dal potere del datore di lavoro di irrogare sanzioni disciplinari perla totale diversità delle due ipotesi.

Infatti, in ipotesi di domanda di risarcimento danni proposta dal datore di lavoro nei confronti del proprio dipendente, fondata sulla responsabilità derivante dalla violazione dell’obbligo contrattuale di diligenza ex art. 2104 c.c., l’azione promossa non è condizionata dalla preventiva contestazione dell’addebito secondo la norma del l’art. 7, legge n. 300 del 1970, che riguarda esclusivamente la responsabilità disciplinare (Cassazione, sezione lavoro, 3 febbraio 1999, n. 950).

 

Art. 2043 c.c. Risarcimento per fatto illecito

Qualunque fatto doloso, o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.

 

LA PARTICOLARE RESPONSABILITÀ DEGLI AUTISTI

Una categoria particolare di lavoratori sono gli autisti dipendenti delle ditte di autotrasporti, il cui contratto di lavoro, in relazione all’alto costo dei mezzi ed ai rischi di incidenti stradali, ha formato oggetto e forma tuttora parte di lite giudiziaria di un certo rilievo.

Ragioni di prudenza consigliano le parti di garantirsi sul fronte delle responsabilità patrimoniali con adeguate polizze assicurative.

 

LA RESPONSABILITÀ DELL’AUTISTA

Agli effetti della responsabilità del lavoratore è rilevante l’osservanza delle norme sulla sicurezza della circolazione, fermo restando l’obbligo per il datore di lavoro di garantire le condizioni di piena efficienza dei veicoli.

A tal fine, l’autista è tenuto a dare tempestiva comunicazione (preferibilmente per iscritto) dei difetti e delle anomalie da lui riscontrate.

Copia delle polizze assicurative attivate sul tema devono, di contro, essere notificate dalla ditta agli interessati.

In tema di mansioni, il contratto di lavoro prevede che l’autista non debba essere comandato, né destinato ad effettuare operazioni di facchinaggio.

L’interessato, però, deve collaborare a che le operazioni di carico e scarico della merce dal mezzo, a lui affidate, siano fatte a regola d’arte.

L’autista è responsabile del veicolo affidatogli e, unitamente, dell’eventuale persona di scorta ed anche di tutto il materiale e delle merci ricevute in consegna; egli risponde degli eventuali smarrimenti e danni che siano a lui imputati, esclusi i casi fortuiti o di forza maggiore.

L’autista è responsabile in prima persona delle sanzioni a lui imputate per negligenza nella guida (violazione del codi ce della strada), anche se la ditta risponde in solido.

Nell’ipotesi che le parti (datore di lavoro e autista) concordino di presentare ricorso contro detti provvedimenti al giudice del lavoro, le spese legali sono a totale carico del datore.

Ad evitare ogni responsabilità, l’autista, prima di iniziare il servizio, deve assicurarsi che il veicolo stesso sia in perfetto stato di funzionamento e che non manchi del necessario e, in tal caso, deve darne immediato avviso, come detto, all’azienda, la quale ha l’obbligo di predisporre le condizioni affinché possa essere effettuato il servizio.

Legittimo deve ritenersi il rifiuto da parte dell’autista di utilizzare il mezzo quando non offre garanzie di efficienza.

 

IL RITIRO DELLA PATENTE

Il ritiro della patente, a causa di violazione di una norma del codice della strada, da parte della Prefettura ad un autista potrebbe causare anche il licenziamento dello stesso, nel l’ipotesi di colpa.

Diversamente egli avrà diritto alla conservazione del posto di lavoro per un periodo di sei mesi senza percepire alcun compenso.

Durante detto periodo, l’interessato potrà essere adibito ad altri lavori e, in questo caso, percepirà la retribuzione del livello nel quale viene a prestare servizio.

Nelle aziende che occupano fino a sei dipendenti il datore di lavoro provvederà ad assicurare a sue spese l’autista contro il rischio del ritiro della patente per un massimo di sei mesi.

Nelle aziende (in base al contratto di lavoro della categoria) che occupano più di sei dipendenti, oltre alla conservazione del posto, l’azienda dovrà adibire l’autista a qualsiasi lavoro, corrispondendogli la retribuzione propria del livello cui viene adibito.

Nell’ipotesi che il ritiro della patente si prolungasse oltre i termini sopracitati, oppure l’autista non accettasse di essere adibito al lavoro cui il datore lo destina, si fa luogo alla risoluzione del rapporto di lavoro.

In tal caso, all’autista verrà corrisposto il trattamento di fine rapporto (tfr), tenendo conto della retribuzione percepita nel livello cui il dipendente apparteneva prima del ritiro della patente.

Ciò nei termini previsti dalle consuetudini aziendali in tema di pagamento delle retribuzioni ai dipendenti.

 

Art. 2049 c.c.  Responsabilità dei padroni e dei committenti

I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenzea cui sono adibiti.

 

 Art. 7 Statuto dei lavoratori Sanzioni disciplinari

Le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti. Esse devono applicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano

Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa.

Il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato.

Fermo restando quanto disposto dalla legge 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro; inoltre la multa non può essere disposta per un importo superiore a quattro ore della retribuzione base e la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per più di dieci giorni.

In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa.

Salvo analoghe procedure previste dai contratti collettivi di lavoro e ferma restando la facoltà di adire l’autorità giudiziaria, il lavoratore al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare può promuovere, nei venti giorni successivi, anche per mezzo dell’associazione alla quale sia iscritto ovvero conferisca mandato, la costituzione, tramite l’ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, di un collegio di conciliazione ed arbitrato, composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro scelto di comune accordo o, in difetto, nominato dal direttore dell’ufficio del lavoro. La sanzione disciplinare resta sospesa fino alla pronuncia da parte del collegio.

Qualora il datore di lavoro non provveda entro dieci giorni dall’invio rivoltogli dall’ufficio del lavoro, a nominare il proprio rappresentante in seno al collegio di cui al comma precedente, la sanzione disciplinare non ha effetto. Se il datore di lavoro adisce l’autorità giudiziaria, la sanzione disciplinare resta sospesa fino alla definizione del giudizio.

Non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione.

 

DOVERI DEL DATORE E DEL LAVORATORE IN TEMA Dl SICUREZZA DEL LAVORO

Il principale destinatario degli obblighi in tema di sicurezza del lavoro (prevenzione infortuni ed igiene del lavoro) è senza alcun dubbio il datore di lavoro. Spetta all’imprenditore, infatti, come capo dell’impresa (art. 2086 c.c.), organizzare l’attività nel rispetto delle norme in materia, con l’istituzione dell’organigramma aziendale, la stesura e la distribuzione dei piani di sicurezza aziendale e del piano sanitario, nonchéeffettuare periodicamente la verifica dei rumori e quant’altro sia utile alla difesa dell’integrità fisica sua e dei collaboratori.

Diversamente, specie in caso di infortuni o di malattie professionali causate da inosservanze in materia, scattano delle responsabilità penali, amministrative e civili, nonostante l’assicurazione Inail.

In tema di sicurezza del posto di lavoro, in tutte le aziende ed in particolare nelle attività dove le statistiche indicano elevati indici di infortuni e malattie, la collaborazione fra rappresentanti della ditta e lavoratori non può che essere totale ed andrebbe codificata, come in molte aziende si svolge, con del tempo dedicato al tema, così da assolvere anche l’onere di formare ed informare.

Norma chiave resta l’art. 2087 c.c. che così recita: «L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».

Il lavoratore dipendente ha interesse a sollecitare il proprio datore di lavoro alla scrupolosa osservanza delle norme, talchè sul tema, di norma, dovrebbe sussistere unità di intenti.

La Corte di Cassazione, in una pronuncia del 6 febbraio 2000, così si è espressa: «La responsabilità del datore di lavoro che è tenuto alla predisposizione e all’adozione di tutte le misure idonee a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore ha natura contrattuale, con la conseguenza che, al fine della risarcibilità del danno biologico, grava sul lavoratore l’onere di provare l’inadempimento del datore di lavoro all’obbligo di adottare le suddette misure di protezione.

Inoltre il lavoratore deve provare sia la lesione all‘integrità psico-fisica sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa» (Cassazione civile, sezione lavoro, 5 febbraio 2000. n. 1307, in Giust. Civ. 2000, pag. 664).

Quindi la circostanza che sia avvenuto un infortunio nell’ambiente di norma definito «di lavoro» non comporta di per sé automatica responsabilità del datore di lavoro.

Invero è indispensabile, ai fini della corretta imputazione del fatto (al datore o al lavoratore), un esame concreto della singola fattispecie, cioè un’analisi del comportamento concretamente tenuto dalle parti, soddisfacendo quel particolare onere probatorio che incombe, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2087 e 2697 del codice civile, non essendovi alcuna deroga del legislatore in materia, su quella parte che vuol far valere un diritto in giudizio.

La giurisprudenza è inoltre unanime nel ritenere che nemmeno l’art. 2087 c.c. configuri un’ipotesi di responsabilità oggettiva, dovendo la responsabilità del datore di lavoro essere comunque ricondotta alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento (Cassazione 21 ottobre 1997, n. 10361; Cassazione, sezione lavoro, 3 aprile 1999, n, 3234, in Gius. 1999, XII, 1575; Cassazione 29 marzo 1995, n. 3740, in Lav, Giur 1995, IX, 865) e che è pur sempre necessario che siano ravvisabili nella condotta del datore di lavoro profili di colpa a cui far risalire il danno all’integrità fisica patito dal dipendente (Cassazione 2 settembre 1997, n. 3455, in Gius. 1997, XIV, 1721).

In particolare, poi, il Supremo Collegio ha anche affermato che «in tema di infortuni sul lavoro, quando risulti accertato l’errore grave del dipendente, a seguito di comportamento anormale, non potendosi ritenere sufficiente alcuna cautela atta a tanto scongiurare, deve giudicarsi non punibile il datore di lavoro, per inesigibilità di una condotta non obiettivamente prevedibile» (Cassazione 5 dicembre 1988, n. 11973).

 In conclusione, in capo al lavoratore dipendente, in un contratto di lavoro, sussistono dei diritti, ma anche degli obblighi. Obblighi che, se violati possono far sorgere delle responsabilità rilevanti.

Per questo motivo è bene che gli stessi siano ricordati dai datori di lavoro attraverso il regolamento aziendale da notificare a tutti i dipendenti per l’opportuna conoscenza.

 

Fonte Montesissa & Celli

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